La questione dell’ammissibilità dell’appello tributario è una delle più dibattute nelle aule, in quanto una sanzione di inammissibilità vanifica l’intera impugnazione. La giurisprudenza sembra ormai orientata nel ritenere ammissibile l’appello tributario che riproponga semplicemente gli stessi motivi del ricorso introduttivo, senza evidenziare nello specifico i capi della sentenza ritenuta errata.

Tuttavia, per non rischiare di incorrere in una sanzione di inammissibilità, il contribuente che propone l’atto di appello davanti alla Commissione Tributaria regionale deve osservare le disposizione riportate nell’art.53 del D.Lgs n. 546/1992. Tra queste disposizioni è particolarmente degna di nota la specificità delle motivazioni, sulla quale sono emersi due diversi orientamenti giurisprudenziali.

Specificità delle motivazioni nell’appello tributario: i diversi orientamenti

Secondo il primo orientamento in merito all’individuazione e alla funzione dei motivi di appello tributario, l’assenza o la genericità dei motivi, o anche la mera riproposizione di quelli del primo grado, determinano l’inammissibilità dell’appello tributario. Tale orientamento, più risalente nel tempo, si basa principalmente su un’interpretazione di natura letterale dell’art. 53, comma 1, del D.Lgs n. 546/1992, che prevede appunto l’inammissibilità se nell’appello manca oppure è incerto uno degli elementi essenziali, tra i quali rientrano i motivi specifici.

Tale argomentazione viene poi rafforzata dalla ratio legis della norma, volta all’assicurare un riesame della fattispecie, ma con punti di riferimento ben delineati. In particolare, il contribuente non può chiedere al giudice di riesaminare indistintamente la fattispecie, ma indicare specifiche censure. L’impostazione rispetta anche la funzione teleologica della norma, che prevede l’instaurazione di un contenzioso di secondo grado in ottica anti dilatatoria del diritto di difesa.

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Questo indirizzo, tuttavia, è stato superato da un orientamento più recente, che non prevede, ai fini dell’ammissibilità, che l’atto di appello tributario debba individuare motivi specifici, ritenendo corretta anche la semplice riproposizione di quanto sottoposto al giudice in primo grado. Anche in questo caso, le argomentazioni hanno una natura letterale: la norma non menziona tra le cause di inammissibilità dell’appello la mera riproposizione dei motivi del ricorso introduttivo, perché priva di quella mancanza di interesse ad agire che invece caratterizza le altre ipotesi individuate dal legislatore. Le suddette cause di inammissibilità (assenza, genericità e riproposizione), infatti, sono concetti completamente differenti che non possono considerarsi equivalenti.

Nel caso dell’assenza di motivazione, infatti, si deve ricorrere ad una valutazione esclusivamente qualitativa, in quanto si ha una totale assenza dei motivi, mentre nel caso della genericità la valutazione è anche in termini qualitativi, in quanto le motivazioni sono presenti ma articolate in modo non specifico. L’ipotesi delle riproposizione, invece, è estranea a questi criteri, perché la motivazione è presente e ben articolata.

Anche questo orientamento fa poi riferimento alla ratio legis della norma, che devolve l’analisi della fattispecie nella sua totalità in assenza di formalismi, che circoscrivono in modo tassativo il perimetro entro il quale il giudice di appello è chiamato ad assumete una decisione.

In sintesi, quindi, l’indicazione dei motivi nella parte espositiva o argomentativa dell’appello tributario è irrilevante, in quanto questi possono essere ricavati dalla riproposizione di quelli del ricorso introduttivo.

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La sentenza della Cassazione

I giudici di legittimità sono intervenuti recentemente sulla materia, con l’ordinanza n. 5864 del 28 febbraio 2019. Nella vicenda considerata, l’Agenzia delle Entrate, a seguito di una verifica fiscale, aveva notificato ad un contribuente un avviso di accertamento recuperando a tassazione maggior reddito. Il contribuente ha quindi proposto ricorso davanti alla Commissione tributaria provinciale, che però lo ha respinto. Tale pronuncia è stata immediatamente impugnata in secondo grado, con la riproposizione delle stesse motivazioni del primo.

La CTR ha ritenuto questo appello inammissibile, in quanto non rispettava le disposizioni dell’art. 53 comma 1, del D.Lgs n. 546/1992. Il contribuente è quindi ricorso in Cassazione, sostenendo l’illegittimità della sentenza di secondo grado.

La Corte Suprema, con l’ordinanza sopra citata, ha accolto il ricorso, puntualizzando che l’atto di appello tributario deve essere redatto in conformità con le disposizioni dell’art. 53 comma 1, del D.Lgs n. 546/1992, ossia:

  • l’indicazione della commissione tributaria;
  • l’identificazione dell’appellante e della parte resistente;
  • l’esposizione sommaria dei fatti;
  • l’oggetto della domanda;
  • i motivi specifici dell’impugnazione, nonché in ultimo la sottoscrizione del legale del proponente.

L’assenza di tali elementi determina l’inammissibilità dell’appello, in modo da evitare l’abuso in chiave dilatatoria del mezzo di impugnazione.

Tuttavia, secondo la Cassazione, in questo caso non sussiste la mancanza o l’incertezza dei motivi specifici di impugnazione, perché il gravame, seppur formulato in modo sintetico, contiene una motivazione che può essere interpretata in modo univoco, la cui specificità può essere dedotta dall’intero atto di impugnazione.

La semplice riproposizione delle ragioni di impugnazione, secondo la Corte, se effettuata in contrapposizione alle argomentazioni del giudice di primo grado, assolve pienamente l’onere di impugnazione specifica, dato il carattere devolutivo pieno che ha l’appello tributario, che non è limitato al controllo di vizi specifici, ma rivolto ad ottenere un riesame della causa nel merito.