Le chat WhatsApp, e in generale le conversazioni all’interno di app di messaggistica instantanea, possono essere utilizzate come prova all’interno del processo tributario? Si tratta di un quesito di particolare interesse, che trova riscontro nella sentenza n. 105/01/21 depositata il 14 aprile 2021 dalla Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Emilia.

Nel caso preso in esame, l’Amministrazione finanziaria contestava la detraibilità dell’IVA per operazioni oggettivamente inesistenti ad una società successivamente dichiarata fallita. L’avviso di accertamento è stato notificato anche ad una persona fisica, assunto che ricopriva il ruolo di amministratore di fatto ed effettivo dominus della società contribuente. Tale assunto era confermato da alcuni testi di messaggistica istantanea scambiati con gli uffici amministrativi della società e con i clienti della stessa per definire le modalità di consegna e il pagamento di alcune fatture.

In sede di giudizio, il contribuente ha contestato l’utilizzabilità delle chat WhatsApp riportate in un processo verbale di contestazione, in quanto prive della attestazione di conformità di notaio o altro pubblico ufficiale rispetto ai testi originali presenti sul device di provenienza.

Chat WhatsApp nel processo tributario: necessario garantire provenienza e affidabilità

Nella sentenza presa in esame la Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Emilia ha annullato l’atto impugnato, ritenendo fondata la contestazione del contribuente sull’inutizzabilità dei testi di messaggistica istantanea. Secondo il Collegio, infatti, le chat WhatApp non possono essere fonte di prova in sede contenziosa perché non può esserne accertata la veridicità senza un’estrazione controllata e certificata dal supporto informatico.
A supporto di tale affermazione, la Commissione Tributaria fa riferimento a due sentenze della Corte di Cassazione, una in abito penale, l’altra in ambito fiscale. In Cass., sez. V pen., 25 ottobre 2017, n. 49016, il Giudice Supremo afferma la legittimità del provvedimento di rigetto della richiesta di acquisizione della trascrizione di conversazioni, effettuate via Whatsapp e registrate da uno degli interlocutori, perché, nonostante queste costituiscano memorizzazione di un fatto storico, costituente prova documentale ex art. 234 c.p.p.,  la loro utilizzabilità è però condizionata all’acquisizione del supporto telematico o figurativo contenente tale registrazione, così da poterne accertare l’affidabilità, la provenienza e l’attendibilità del contenuto.
In Cass., sez. VI civ. – T, 12 ottobre 2020, n. 21994, poi, il Giudice di legittimità ribadisce che le attestazioni del curatore fallimentare, in quanto provenienti da un pubblico ufficiale, hanno valore di prova privilegiata ex art. 2700 c.c., quando hanno per oggetto fatti da lui compiuti o che siano avvenuti in sua presenza, ma non quando riguardino circostanza conosciute attraverso l’esame della documentazione dell’imprenditore dichiarato fallito; ne consegue che, qualora l’Amministrazione finanziaria emetta un avviso di accertamento a seguito del disconoscimento di una nota di variazione intestata alla società fallita per fatture non pagate, anch’esse intestate alla società, le dichiarazioni del curatore fallimentare fondate sull’esame di tali documenti non costituiscono piena prova del mancato pagamento.

Quando le chat possono costituire una prova digitale?

Un file contenente un testo di messaggistica istantanea può costituire una prova digitale, al pari dei file che contengono un’immagine, un video, un audio o il testo scambiato attraverso posta elettronica. I dati possono essere elaborati con supporti diversi, come smartphone o computer, e conservati in uno spazio che non sia sotto il controllo diretto della parte, come ad esempio in un social network. A tali file si accompagnano i cosiddetti metadati, ossia delle informazioni ulteriori rispetto a quelle contenute nel file, come l’autore del file stesso e la data e ora della sua creazione.
Questi elementi possono costituire una prova digitale e possono condizionare le modalità con le quali ne sono garantite autenticità, integrità e sicurezza, e quindi la forza probatoria che può essere loro riconosciuta.
A tal fine sono fondamentali sia la disciplina europea, e in particolare il cosiddetto “Regolamento electronic IDentification Authentication and Signature – eIDAS, che la disciplina nazionale riportata nel nel D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82 – Codice dell’Amministrazione Digitale – CAD.
In particolare, il Regolamento eIDAS definisce il “documento informatico” come “qualsiasi contenuto conservato in forma elettronica, in particolare testo o registrazione sonora, visiva o audiovisiva”, mentre il CAD lo descrive come “documento elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti”. Inoltre, l’articolo 46 del Regolamento eIDAS stabilisce che “a un documento elettronico non sono negati gli effetti giuridici e l’ammissibilità come prova in procedimenti giudiziali per il solo motivo della sua forma elettronica”, mentre l’art. 20, comma 1-bis, CAD afferma che, nel caso in cui non sia apposta una firma digitale, l’idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono liberamente valutabili in giudizio, in relazione alle caratteristiche di sicurezza, integrità e immodificabilità”.
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Il valore probatorio delle chat WhatsApp

L’articolo 2712 c.c, nel testo modificato del CAD, prevede che le riproduzioni informatiche e più in generale ogni “rappresentazione meccanica di fatti e di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime”; l’articolo 2719 c.c. inoltre dispone che le copie fotografiche di scritture hanno la stessa efficacia delle autentiche, purché la loro conformità con l’originale sia attestata da un pubblico ufficiale competente, ovvero non sia espressamente disconosciuta.
La Corte di Cassazione si è poi espressa più volte in materia di efficacia probatoria dei documenti informatici. Ad esempio, in Cass., sez. VI civ. – II, 14 maggio 2018 (ord.), n. 11606 la Corte Suprema afferma che l’e-mail costituisce un documento elettronico contenente la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti che, anche se privo di firma, rientra tra le riproduzioni informatiche e le rappresentazioni meccaniche di cui all’art. 2712 c.c. e quindi ha forma piena di prova dei fatti e delle cose rappresentate, purché colui contro il quale viene prodotto non ne disconosca la conformità ai fatti o alle cose medesime.
Successivamente, in Cass., sez. lav., 8 marzo 2018, n. 5523, si stabilisce che l’e-mail priva di firma elettronica non ha l’efficacia della scrittura privata prevista dall’art. 2702 c.c., relativamente alla riferibilità al suo autore apparente, attribuita dall’art. 21 CAD solo al documento informatico sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, pertanto il giudice può liberamente valutare, ai sensi dell’art. 20 del medesimo decreto, l’idoneità a soddisfare il requisito della forma scritta, relativamente alle sue caratteristiche oggettive di integrità, sicurezza, qualità ed immodificabilità.
In Cass., sez. II, 21 febbraio 2019, n. 5141, si legge invece che gli SMS contengono la rappresentazione di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti e sono riconducibili nell’ambito dell’art. 2712 c.c, e pertanto costituiscono piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale vengono prodotti non ne contesti la conformità ai fatti o alle cose medesime; tuttavia, l’eventuale disconoscimento di tale conformità non ha gli stessi effetti previsti dall’art.15 comma 2, c.p.c. per la scrittura privata, in quanto mentre quest’ultima non può essere utilizzata in mancanza di richiesta di verificazione e di esito positivo della stessa, per gli SMS non si può escludere che il giudice possa comunque accertare la corrispondenza all’originale anche attraverso altri mezzi di prova.
Infine, secondo Cass., sez. III civ., 26 agosto 2020, n. 17810, la conformità della riproduzione cartacea delle risultanze di un sito internet può essere contestata ai sensi dell’art. 2712 c.c. e delle norme del CAD, ma il giudice può sempre accertare, anche d’ufficio ai sensi dell’art. 447-bis, comma 3, c.p.c. (se applicabile), la contestata conformità con qualunque mezzo di prova, inclusa la richiesta di informazioni al gestore del servizio o mediante verifica diretta del sito.

Come produrre in giudizio le chat?

Il contenuto dei messaggi di app come WhatApp e affini può essere introdotto nel giudizio attraverso il deposito di trascrizioni delle conversazioni elettroniche elaborate da un consulente tecnico e corredate da una attestazione di conformità all’originale rilasciata da un notaio o un altro pubblico ufficiale.
Secondo una parte della giurisprudenza di legittimità, l’utilizzabilità della prova documentale così formata, nel procedimento penale, è condizionata all’acquisizione del supporto telematico o figurativo contenente la relativa registrazione, in modo da verificare l’affidabilità, la provenienza e l’attendibilità del contenuto di tali chat (Cass., sez. V pen., 19 giugno 2017, n. 49016).
Secondo un indirizzo meno rigorista, invece, il documento legittimamente acquisito in copia è soggetto alla libera valutazione da parte del giudice, e assume valore probatorio, insieme ad altri elementi, anche se privo di certificazione ufficiale di conformità e anche se l’imputato ne disconosce il contenuto (Cass., sez. V pen, 16 gennaio 2018, n. 8736, secondo cui “i dati di carattere informatico contenuti nel computer, in quanto rappresentativi di cose, rientrano tra le prove documentali […] e l’estrazione dei dati è una operazione meramente meccanica, sicché non deve essere assistita da particolari garanzie. […] La possibilità di acquisire un documento e di porlo a fondamento della decisione prescinde dal fatto che provenga da un pubblico ufficiale o sia stato autenticato […]”).